Vincent Van Gogh, "I colori dell'eternità". Ma non solo... - Parte 1
Lunedì 7 aprile 2025, nel programma "Ulisse" condotto da Alberto Angela, c'è stata la puntata dedicata a Vincent Van Gogh intitolata "I colori dell'eternità".
Van Gogh è da sempre il mio pittore preferito, anzi, il termine "preferito" è limitante per l'emozione che sento nel racconto della sua vita, per la visione delle sue opere.
Il primo luogo che ho visitato nel mio viaggio ad Amsterdam, anche se quel "visitato" è un termine improprio, perché è vero che le emozioni non si possono scrivere né tantomeno descrivere: solo avvertire.
Avvertire "dentro".
Dentro gli occhi per arrivare direttamente all'anima.
Comunque, il primo luogo visitato, è stato appunto il Museo di Van Gogh.
Ho atteso tanto il programma di Angela, anche se sono incredibilmente numerosi i documentari e i films che ho visto sull'Artista, così come i tanti libri letti.
Ero curiosa di vedere il taglio che gli avrebbe dato Alberto Angela, nei suoi molteplici ruoli di paleontologo, divulgatore, giornalista, scrittore, e forse tanto altro.
E mi è piaciuto.
Mi è piaciuta la precisione, i dettagli, l'attenzione, che ha messo nelle varie tappe del percorso di vita del grande pittore.
Mi è piaciuto anche l' intercalare con spezzoni di recitazione di un attore che impersonava V.G.
Questo per rendere forse più chiaro o più "vivo" il tutto.
Ero tanto desiderosa che mi piacesse ogni cosa, che tutto fosse come me l'ero immaginato, che l'ho trovato -se non perfetto- molto vicino a ciò che volevo vedere.
Perché io sono così.
Più desidero un evento, più qualcosa in me scatta e fa in modo che non trovi nessuna pecca in esso.
Contrariamente a ciò che dovrebbe essere di norma, e cioè diventare maggiormente critici, io accetto tutto ciò che comunque è nuovo per aggiungerlo insieme al mio già conosciuto, così, senza pregiudizio e senza critica.
Poi ho chiesto il parere ad un mio amico, appassionato come me di Van Gogh, che aveva visto anche lui la puntata.
L'ho chiesto a lui perché è la persona che più mi è affine nel valutare tutto ciò che è arte o cultura, senza presunzione o arroganza, tuttavia senza mai rimanere alla superficie, ma ascoltandosi.
Così facendo, poter "scendere" dentro di sé, in quella piega dell'anima dove si fermano le emozioni, per poi custodire nel tempo le più forti, le più importanti.
E le emozioni, qualunque esse siano, sono il senso della vita.
Nel descrivere la sua opinione ha usato un'espressione che mi è piaciuta molto:
"... per una volta si può sognare come in una favola e pensare che in quegli ultimi giorni di vita abbia dato tutto quello che gli era rimasto, aveva fatto 74 quadri in 70 giorni.
E poi i suoi colori, la sua vita, si sono espansi nell'aria e hanno raggiunto tutti, e tutti si sono innamorati di lui.
E lui è diventato immortale."
Sì, credo sia proprio così.
Che sia vero così.
Che sia diventato immortale perché la sua impotenza nel tentare di farsi capire dagli altri, il senso di solitudine e di disperazione nel rendersi conto che era un tentativo impossibile quell'affannosa ricerca di comprensione, ha fatto sentire gli esseri umani, gli abitanti di questo mondo troppo interessato al materiale, un po' in colpa per tanta indifferenza, tanta assenza di empatia, tanta superficialità, verso un animo, una sensibilità, che portava con sé -come inevitabile conseguenza- un' immensa, disperata, furiosa, sofferenza.
Ecco, ciò che di veramente "furioso" viveva in Vincent, era forse quella sofferenza che si placava e trovava sfogo solo attraverso quelle pennellate altrettanto furiose, e pregne di colore e di vita.
Sono quei "colori dell'eternità" che -a oggi- possiamo non finire mai di ammirare, e che allora nessuno si soffermava neppure a guardare.
Perché etichettare come folle o pazzo chi è diverso da quello che ognuno di noi ritiene essere "normalità"?
Cos'è normalità e cosa al contrario follia?
Sono una psicologa clinica, ho lavorato in una neuropsichiatria infantile per diversi anni, e forse per questo motivo sono estremamente cauta e rispettosa verso ciò che vengono ritenuti "sintomi" di una patologia da quelli che, forse, sono solo comportamenti particolari in soggetti particolari.
Van Gogh era creatività pura e solare.
I suoi dipinti sono esplosioni di gialli, mescolanza di gialli, sovrapposizioni di spessore pennellate intrise di quel colore che è luce, vita, sole, distese di grano maturo e girasoli, non certo buio od oscurità.
La sua arte ruotava intorno al giallo: quello del grano maturo, così come quello dei girasoli appunto.
Non crisantemi o nature morte NO: GIRASOLI!
E campi di grano.
In più non è mai stata messa in evidenza la sua profonda cultura, la conoscenza di quattro o cinque lingue, informazione di cui non sapevo, e ho imparato proprio dalla puntata di Alberto Angela.
Sempre descritto come una persona isolata, taciturna, introversa, che dipingeva in mezzo alla natura e alla campagna, che scelse di stabilirsi in un piccolo paese della Provenza piuttosto che in una grande metropoli, scappando così dalla caotica e poco intimistica Parigi.
Ma tutto ciò non toglie nulla al suo genio ed alla sua cultura, anzi, solo così riusciva a non disperderla né a banalizzarla.
Così come alla sua capacità di socializzare senza problemi, se occorreva o se aveva voglia di farlo.
Un po' come capita a tutti del resto
Nel suo dipingere girasoli non c'è ossessività ma scelta, una preferenza di soggetto da riprodurre sulla tela.
E quel giallo illuminava i suoi dipinti, luce pura!
Nel 1888 lavorava a quello che sarebbe diventato uno dei più famosi dipinti di girasoli e cioè "Sunflowers".
Attendeva l'arrivo del suo più grande amico e collega artista, Paul Gauguin, e ne dipinse diversi per decorare la sua casa e renderla così il più accogliente possibile.
"Ci sto lavorando ogni mattina dall'alba in avanti, in quanto i fiori si avvizziscono così rapidamente..." scriveva da Arles al fratello Theo.
Era in attesa dell'amico Gauguin, e voleva donargli il massimo della sua opera, ma io credo anche il massimo della sua luce con quella esplosione di gialli.
Van Gogh desiderava che l'arrivo dell'amico potesse essere l'inizio di un sodalizio tra artisti, un'associazione tra persone che avevano il grande dono della genialità nel talento.
L'arrivo di tanta frenetica attesa, che avvenne il 23 ottobre del 1888 ad Arles, si concluse appena due mesi dopo una convivenza fatta di litigi e incomprensioni.
Gauguin tornò a Parigi, e la delusione e la sofferenza per questo abbandono, guidò la mano di Vincent al taglio dell'orecchio.
Ancora una volta un abbandono per una personalità in cui il vuoto affettivo è il perno attorno al quale ruota la sua vita.
Nessuna follia, disperazione sì, tanta.
Ed è tremendo non essere compresi dagli altri, ancora di più da chi ami e stimi.
Allora , forse, i girasoli, il colore giallo, i campi di grano, sono quella luce, quella fame d'amore, di amicizia vera, profonda, che in realtà Vincent ha sempre rincorso.
"Il girasole è mio" dichiarò una volta Van Gogh, così ho letto.
E ci sta con quella "fame di giallo" che lo accompagna.
Dicono che VG fosse ossessionato dal giallo, talmente tanto da mangiarlo direttamente dai tubetti di vernice, convinto che gli avrebbe portato la felicità.
Quella ricerca di felicità che trovava una realizzazione solo quando, con cavalletto, tela, colori, si collocava nel mezzo di una distesa di grano maturo, o tra i "suoi" girasoli.
Cosa c'è di malato o addirittura di folle in tutto questo, spiegatemi?
Io ci vedo solo uno sconfinato amore per la natura, e quindi per la vita, e per gli esseri umani. Quella natura che, nel momento in cui intingeva il suo pennello tra le diverse tonalità di giallo che sapeva miscelare e ottenere, trasferiva nelle sue tele con quelle stesse mani guidate dagli occhi del cuore.
Tutto con l'aggiunta della sua genialità, e del suo appassionato amore .
L'atto poi di "mangiare" a volte il colore giallo (verità o leggenda?) se seguo la mia formazione di psicologa si chiama "introiezione".
Volete la definizione di introiezione? Eccola:
"processo psichico per cui si tende ad accogliere in sé oggetti o aspetti del mondo esterno appropriandosi delle rispettive doti o qualità."
Non vi sembra aderire perfettamente all'atto di Vincent di mangiare il giallo?
Fame di giallo come fame di amore.
Amore per ciò che era fuori di lui e immenso desiderio di appropriarsene.
In fondo nessuno ha mai tentato di capire davvero il grande artista: non Theo, il fratello che forse vedeva Vincent come un problema irrisolvibile, e di sicuro non Gauguin, il collega che lui stimava, ammirava, amava con tutta la passione di un animo libero da invidie e gelosie, ma intensamente convinto nel credere che anche gli altri potessero "sentire" nel suo stesso modo.
C'è una canzone di Don McLean intitolata "Vincent" e dedicata a Van Gogh che termina con queste parole:
"... non ti ascoltavano, non sapevano come fare, ma forse adesso ti ascolteranno."
Io non ho mai capito perché bisogna arrivare a suicidarsi per essere ascoltati, essere "visti" solo dopo, quando ormai non serve più, ed è tardi per tutti.
In ogni caso non credo che il suo gesto, allora, sia certo servito ad essere visto o ascoltato, ma solo la conferma della sua follia.
Ecco, questa è -per così dire- la prima parte del mio pensiero su Van Gogh, quella che riguarda il colore giallo, dove perfino i muri della sua casa di Arles erano gialli.
Nella seconda parte, invece, sarebbe bello leggere insieme l'altro aspetto che alberga nella sua anima: quello della notte e dei suoi incredibili, ipnotici, fiabeschi, cieli stellati.
L'altra parte del giorno e del giallo quindi, ma che sarà anche qui testimonianza di un'anima piena di colore e di luce, mai buia, ma sempre riempita da spettacolari vortici di stelle.
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