Eva continua il racconto della sua anoressia

 



Nota:

Ho suddiviso la storia del percorso anoressico di Eva in due parti perché troppo lungo in una unica soluzione.
Questa è la seconda parte, ma è estrapolata dall'intero racconto, per questo necessita anche della lettura della prima parte -già pubblicata in precedenza- in cui Eva (nome d'invenzione per motivi di privacy) spiega in maniera precisa, profonda, dettagliata, emozionante, il come e il perché sia arrivata alla malattia.
Posso dire che ora Eva (che io seguii durante tutto il suo ricovero in ospedale) sta bene, non è mai più ricaduta nella patologia, è una donna ora adulta, e da allora (era il 1997 e io facevo tirocinio all'interno dell'ospedale) siamo ancora in contatto, siamo rimaste molto legate, e appena può mi viene a trovare a Bologna.
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Seconda Parte

Avevo i soliti problemi di tutte le ragazze: la scuola che mi andava sempre più stretta, i rapporti con i ragazzi, organizzarsi il sabato sera con gli amici e il comprarsi qualcosa di nuovo e di carino da indossare per l'occasione.
Non avevo mai lontanamente pensato che, quello che sarebbe successo più avanti, mi avrebbe sconvolto l'esistenza.
Io che mi credevo abbastanza forte da non avere bisogno nemmeno di fumare la prima sigaretta di nascosto in compagnia dei miei coetanei per sentirmi grande.
Io che credevo di accettarmi così com'ero, e pensavo che a me certe cose non sarebbero mai potute accadere.
Invece poi mi sono dovuta ricredere perché è successo anche a me.
Mi ci sono ritrovata dentro in un modo lento, inizialmente era quasi impercettibile perché io non avrei mai creduto quanto serio potesse essere il mio problema e cercavo di non dare un peso eccessivo alla mia paura del cibo, al mio desiderio di non invasione da parte degli alimenti.
Quando tornavo a casa da scuola ero sempre molto in ansia al pensiero di quello che ci sarebbe stato da mangiare, mi innervosiva il pensiero che una volta a casa avrei "dovuto" mangiare un piatto di pasta ( premetto che io avevo sempre adorato la pastasciutta!).
Non volevo i sughi, scartavo tutto quello che a me pareva grasso, gettavo via il cibo di nascosto...ma avevo sempre stampata in faccia l'aria sicura e spavalda di quella alla quale "va tutto okay".
Poi iniziai a mettermi ai fornelli in prima persona per "sperimentare" manicaretti senza grassi, sconditi, pietanze che io avrei poi mangiato in tutta tranquillità... anche se ovviamente in quantità ridotte.
Cucinavo spessissimo.
Preparavo anche degli ottimi manicaretti "normali" e tantissimi dolci che offrivo e facevo mangiare proprio a tutti, ma io non li mangiavo mai.
Per me cucinavo quasi solo io. Volevo tutto senza né olio né grassi, scartavo tutto ciò che mi sembrasse grasso: prima di cuocere la carne eliminavo anche i più piccoli puntini bianchi e tutto ciò che poteva non essere "il magro".
Rompevo tutte le fette di prosciutto, perché scartavo pure le striscioline bianche che quasi non si vedevano.
Io stessa ancora non riconoscevo di avere una malattia: questo era un grosso ostacolo che io ponevo alle cure, in quanto credo che quando una persona ha un disturbo alimentare, e viene fatta curare, sia basilare che questa riconosca di avere bisogno di aiuto, altrimenti tutto diventa quasi vano.
Vivevo comunque le mie esperienze di vita: la gita di una settimana con la scuola, la preparazione agli esami di maturità...ma tutto era accompagnato da un nervosismo e da un'ansia interiore che andava oltre il normale.
Mia mamma mi ha fatto notare solo poi che io ero aggressiva, ero una Eva diversa e non più la persona solare di prima.
Lo notavano gli insegnanti, i compagni di classe, le mie amiche, ma io non facevo che negare, e mi stupivo quando mi facevano notare i miei comportamenti strani in fatto di alimentazione, semplicemente perché io non mi rendevo conto di fare delle cose assurde: non prendevo mai il caffè nel distributore automatico se non avevo con me il dolcificante da metterci dentro senza che nessuno se ne accorgesse.
Dividevo tutto quello che mangiavo e me lo portavo a scuola rigorosamente da casa. Parlavo alle mie amiche di quanto fossi diventata brava a jogging perché avevo una gran resistenza...
Pensavo solamente allo sport che "dovevo" fare quel giorno, la mia croce e delizia: finché non avevo fatto ginnastica non mi sentivo a posto, era il mio vitale dovere quotidiano.
Dovevo poi dominare il cibo, renderlo meno pericoloso per non essere invasa da bocconi grandi, oppure mi compravo la pastina in brodo, almeno quella era già abbastanza piccola e non avrei dovuto faticare tanto a schiacciare con la forchetta.
Insomma, praticamente per mangiare ci mettevo una enormità di tempo.
Cercavo di sentirmi il più viva possibile, di uscire da sola il pomeriggio per il centro se ne avevo voglia, ma non funzionava più di tanto: mi ero isolata dagli amici, cercavo di evitare situazioni in cui poteva esserci il cibo di mezzo, quindi non andavo più alle cene ecc, mi chiusi in me stessa e proseguii.
Non avevo più nemmeno il ragazzo, lo lasciai io.
Scrivevo diari su diari, buttavo tutta la mia rabbia lì sui quadernetti che ho ancora e che rileggo con stupore perché scrivevo cose così intense e piene di rabbia che io stessa, oggi, mi stupisco di avere accantonato lì sulla carta.
La scrittura è per me una forma di espressione splendida, ho sempre scritto e ammetto che a volte mi riesce molto più facile della parola.
Scrivere è come fare una litigata, come uno sfogarsi di tutto quello che non mi va.
Poi sto molto meglio e sono talmente alleggerita, che certe volte mi ha proprio cambiato in meglio l'umore.
Fluidificare i pensieri e metterli sulla carta, renderli immortali ed eterni, cogliere l'attimo in cui schizzano ed essere capaci di codificarli... ringrazio il cielo per avermi dato questa passione, per avermi resa capace di gettare nero su bianco le mie rabbie, mi ha aiutata molto.
Mia madre venne a sapere che a Bologna esisteva un Centro per la cura dei disturbi alimentari.
Non mi ha mai detto in che modo ne venne a conoscenza né come abbia fatto a farmi visitare in tempi inferiori alle normali attese che purtroppo esistono, ma saperlo non mi interessa adesso come adesso.
Ci vado.
E pensavo tra me e me: "grazie infinite per tutto quello che tutti state facendo per me".
Andammo alla visita con il borsone con dentro il pigiama e tutto l'occorrente.
Credo che mia madre sapesse già che mi avrebbero tenuta dentro.
Finalmente giunsi al reparto di Pediatria: già il solo fatto di essere in mezzo ai bambini in stanze accoglienti e condividere la giornata con altre pazienti mi rincuorava.
Conobbi diverse ragazze, frequentai il laboratorio d'arte che era a nostra disposizione tre giorni la settimana con una maestra ed imparai anche a fare le sculture con la pasta di pane.
Mi piaceva molto.
Sebbene facessi oggettini piccoli e non perfetti, diciamo che il creare cose dal nulla mi occupava tempo e mi dava soddisfazione nel momento in cui vedevo il "lavoro finito" uscito dal forno e dipinto con gli acquerelli che mi ero fatta portare da mia mamma da casa.
Dipingevo sui fogli di carta e li appendevo al muro dietro al mio letto.
Facevo cuori e fiori coloratissimi, era la mia voglia di vita trasmessa al foglio ed esposta lì, accanto a me, quanto un modo per ricordare a me stessa che la mia grinta non era andata persa, ma era più forte che mai e cresceva di giorno in giorno, così come la rabbia che avevo dentro.
Ogni giorno era una sfida per me: dal cercare di rispettare la dieta che mi avevano prescritto al riempirmi le giornate in qualche modo.
Devo dire che gran parte del tempo mi passava velocemente, tra le visite della mattina e il tempo (ore per la verità) che impiegavo a mangiare e sminuzzare il cibo a me destinato.
Inoltre scrivevo moltissimo ai miei amici di penna.
Ma di questo lungo periodo in ospedale non ho scritto niente, nemmeno un quadernetto.
Ogni volta per me è un rituffarmi indietro a rivivere quei momenti...e mi viene spontaneo pensare a come in certe situazioni avrei agito se la cosa mi fosse accaduta ora e non anni fa...ma è normale credo.
Mi succede soprattutto perché in cuore mio so di aver fatto soffrire tanto anche tutta la mia famiglia che ha sempre lottato con me e non era mia intenzione dare loro tutti questi pensieri.
Veramente non avrei voluto soffrire nemmeno io...mi è successo e basta.
Mia madre mi veniva a trovare almeno due volte alla settimana.
Le telefonavo molto spesso con un mano il bigliettino che preparavo e dove avevo preso nota delle cose che mi servivano: prima di tutto le facevo portare un sacco di verdura e di caffè d'orzo...ne bevevo delle quantità inverosimili: se ci ripenso ora rabbrividisco.
Poi le chiedevo i "generi di conforto" tipo riviste, le figurine di Ligabue, le forbicine per tagliarmi i capelli e via dicendo.
Comunicavo con lei attraverso le cose che le chiedevo, vivevo di bigliettini dove annotavo al volo quello che mi veniva in mente e che le avrei chiesto nella prossima telefonata.
Cose anche superficiali che in quel momento mi sembravano vitali e se poi lei se ne dimenticava ci rimanevo malissimo e mi sentivo privata dell'attenzione di cui avevo bisogno.
Era come se si dimenticasse di me.
Lo so che è atroce dire questo ma purtroppo in quel momento non ero in grado di rendermi conto della cosa.
Non ero io a parlare né ad agire: era l'anoressia, era una bugia che mi muoveva come una marionetta.
E nel momento in cui emergeva la "Eva buona" che voleva avere la meglio erano conflitti grossi e crisi di pianto e di rabbia a non finire.
Una cosa curiosa è che all' inizio noi ragazze anoressiche guardavamo con un certo disgusto le pazienti bulimiche: temevano così tanto il cibo che il pensiero che ci fossero persone che si abbuffavano per noi era assurdo...ma non avevamo considerato che poi successivamente anche noi esseri ascetici saremmo incappare almeno qualche volta nelle abbuffate.
Non ci credevo quando mi dicevano che quasi tutte le anoressiche hanno anche delle fasi bulimiche, avevano ragione...deve essere scritto né percorso della malattia.
Deve essere una di quelle cose in cui ci si scontra senza rendersene conto, non lo so.
Ma succede.

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