A proposito di Pisantrofobia (paura a fidarsi delle persone. Insorge quando una o più esperienze negative lasciano un'impronta a livello emotivo su chi ne ha sofferto) - Storia di una persona Vera.




Era stanca Vera.
Così incredibilmente e maledettamente stanca che si chiedeva dove riuscisse a recuperare ancora le energie per andare avanti.
Vera era una ... era ... oddio, cos'era lei?
Non sapeva definirsi, perché non sapeva dove collocarsi.
Bambina... ragazza...giovane donna...cosa?!
Non era più una bambina, questo era certo, e non era neppure un'adolescente.
Una giovane donna... sì, ecco come poteva definirsi: una giovane donna.
Eppure c'era qualcosa che non quadrava in lei.
Il suo "dentro" non corrispondeva a niente: a nessuna fascia di età, né ad alcuna dimensione di luogo e di tempo.
Era diversa lei.
Diversa, certo.
Ma cosa significava esattamente essere DIVERSA?!
Non lo sapeva.
Non sapeva definire in che modo e perché lo fosse, ma una cosa la sapeva: non riusciva a riconoscersi negli altri.
Né gli altri in lei.
Non aveva problemi ad entrare in sintonia, tutt'altro: la sua capacità di relazionarsi ed empatizzare era immediata, quasi magica, aveva tempi velocissimi.
Lì per lì ne era felicissima.
Ogni volta che accadeva pensava che sarebbe stato l'inizio di una nuova conoscenza, che magari si sarebbe trasformata in una vera profonda amicizia, in un rapporto importante.
Una volta creato un legame -se pensava ne valesse la pena perché l'altra persona le sembrava "giusta" per lei- lo voleva approfondire.
Farselo entrare in quel "dentro" che per lei era un miliardo di volte più importante del "fuori".
Molto, molto, ma molto più importante del suo "fuori", e di quello degli altri.
Così si mostrava, ed era, sempre disponibile.
"Ci sono. Ci sono ogni volta che hai bisogno, e te lo dimostrerò."
E lo diceva con assoluta verità.
Nessuna frase fatta.
Nessuna falsità: se diceva di esserci lei ci sarebbe stata a qualunque costo.
Ci sarebbe stata con l'attenzione dell'ascolto della testa, e di quella del cuore
Dava -e si dava- senza remore, a piene mani.
E lo faceva con slancio, entusiasmo, vitalità.
Sì, perché solo questo "darsi" la faceva sentire viva.
E poi c'era quella parte di sé che neppure lei capiva.
Che in qualche modo la intimoriva perché percepiva che non era normale, ma nello stesso tempo non avrebbe potuto vivere senza, così profondamente radicata in lei com'era.
Era il suo mondo.
Quello parallelo al reale, più forte ed "invadente" del reale, che a volte non voleva ascoltare, ma che bussava sempre alla porta di quella dimensione che doveva per forza essere stata "costruita" da lei nel tempo.
Dalla sua immaginazione forse, ma che era parte di lei.
Una ... realtà fiabesca: ecco come la si poteva definire!
Capiva che era un confine che "gli altri" non potevano valicare, perché per loro invisibile ed assurdo.
Ma per lei non era così.
NON ERA COSÌ.
Quanto tempo ci metteva poi Vera per accorgersi che "l'altro" non ragionava come lei?
Che "prendere", spesso significava farlo con la stessa modalità "a piene mani" che usava lei nel dare?
Che quella sua realtà, in cui convivevano sogni e fantasie, gli altri non potevano neppure immaginarla.
Bè...ci metteva un tempo tutto sommato breve: quello che le occorreva per togliere o alleggerire i problemi agli altri.
Quel suo "esserci" che li faceva stare meglio.
Ma poi ...
poi perché sparivano?
Sì interrogava Vera quando questo avveniva.
Si spaccava la testa pensando a cosa avesse fatto di sbagliato, e a come, e quando, e perché, e in quale momento...
E ovviamente il torto doveva essere il suo.
Sì, sicuramente aveva sbagliato in qualcosa, altrimenti tutto questo non si sarebbe ripetuto ogni volta.
Non potevano essere tutti sbagliati e solo lei nel giusto!
Era così stanca Vera di analizzare ogni percorso compiuto con ogni essere umano a cui aveva dato fiducia.
E se l'erano presa questa sua fiducia... eccome se l'erano presa! E con che piacere.
A volte quasi con avidità.
Allora perché?
Di cosa era così mortalmente stanca?
Se lo chiese Vera, e trovò la risposta.
Era stanca di nascondersi.
Stanca di vergognarsi del "suo" mondo.
Di sentirsi così sbagliata, o peggio, quasi folle.
Voleva farla finita Vera.
Non valeva la pena vivere così.
Rinnegare tutto ciò in cui aveva creduto sempre, per arrivare alla conclusione che aveva speso la sua vita in convinzioni sbagliate.
Ma rinnegare era come avere vissuto dentro una bolla di sapone.
Una bolla trasparente, da dove si può guardare tutto ciò che è all'esterno, ma con una visione totalmente distorta.
Come se quella bolla modificasse l'esterno: dilatando, a volte restringendo e storpiando, ma mai la fedeltà di ciò che era.
Resistente però quella bolla, fatta di un materiale impossibile da infrangere.
Avrebbe rinnegato tutto ciò che era se avesse potuto farlo... davvero lo avrebbe fatto?
Forse, se fosse stata convinta di avere sbagliato...ma non era così!
NON ERA COSÌ!
Lì, giù giù, nel fondo più fondo di quell'anima che non aveva saputo crescere ed era rimasta bambina, era convinta che la purezza con cui guardava alla vita, era lo sguardo giusto con cui attraversarla.
E quell'anima che aveva mantenuto il candore e la fiducia di bambina, era irriducibile.
Irriducibilmente COSÌ.
A ogni ferita un taglio profondo che sanguinava, poi rimarginava, fino alla nuova delusione che -a seconda della gravità- creava un segno, un altro taglio, o uno squarcio non risolvibile.
Non voleva porre fine alla sua vita, no. NO!
Era talmente innamorata, e affamata, e assetata di vita, che voleva ostinatamente e assolutamente percorrerla fino a che il destino glielo avrebbe concesso.
Decise di andare via.
Partire, subito!
Senza alcuna meta precisa.
E ricominciare.
Sapeva di quel bosco molto vasto e profondo lontano dal luogo che abitava.
Ne aveva sentito parlare tante volte, e dalla descrizione pareva immenso, quasi una foresta.
Una foresta con tanti animali, ma non di quelli pericolosi.
Animali come caprioli, conigli, lepri, piccoli roditori, uccelli dai mille colori.
E pappagalli con cui chiacchierare forse.
Nella sua fantasia un po' infantile si vedeva già a condividere i suoi giorni e le sue notti con tanti Bambi, e tanti Tippete, come si chiamava il coniglio amico di Bambi.
E altrettanti Cip e Ciop, gli amici scoiattoli che forse le avrebbero offerto qualche pigna da mangiare.
Sì alzò al sorgere del sole.
Prese una sacca con dentro una giacca pesante se la notte fosse stata troppo rigida, un paio di scarpe alte e robuste se il terreno e la natura del bosco si fosse dimostrata troppo aspra. Poi qualche vivanda per l'immediato bisogno, e una borraccia colma fino all'orlo di acqua fresca.
Comminò Vera.
Era lungo il cammino che portava al bosco, ma ci arrivò.
Sì trovò un rifugio dove passare la notte per proseguire poi al mattino presto e raggiungere la foresta.
Non riusciva a prendere sonno.
Malgrado la grande stanchezza era talmente eccitata che la mente era stipata di pensieri.
E ogni pensiero, con gli occhi chiusi, diventava fantasia, e la fantasia una visione di tante immagini che si susseguivano come diapositive piene di colori, una dietro l'altra, a ritmo rapido e incalzante.
E si vedeva già perfettamente integrata a chiacchierare con Bambi, e gli amici scoiattoli, o il pappagallo arcobaleno.
Sì, perché lei sapeva che con gli abitanti di quel mondo avrebbe finalmente chiacchierato come sapeva e amava fare.
Ma questa volta sarebbe stata capita.
Sì, tutti l'avrebbero compresa così come lei avrebbe compreso tutti.
Finalmente un bellissimo chiarore che filtrava tra i fitti rami degli alberi, e cespugli, e siepi del bosco, la svegliarono dicendole che era ora di alzarsi e riprendere il cammino.
Era entusiasta Vera, piena di energia, di curiosità, di progetti, di speranza, e pensieri positivi!
Quel desiderio di "condividere" lo sentiva premere dentro come un uccello nato libero che sbatte le ali furiosamente perché vuole uscire da una gabbia ingiusta. Che non gli spetta e non gli appartiene.
Era troppo tempo che subiva questa gabbia angusta e buia.
Stretta e opprimente.
Che le stringeva le gambe, le braccia, il torace, e con lui il respiro.
Voleva respirare Vera, finalmente allargare al massimo il suo torace, riempire d'ossigeno ogni alveolo del suo polmone... e RESPIRARE!
E voleva essere capita, o meglio, accettata insieme a quel suo mondo forse anomalo, ma almeno non solo finalizzato a qualcosa di materiale, di egoistico, di spesso banale, scontato, meschino.
Ora era nel posto giusto, lo sentiva: il regno della Natura e i suoi abitanti avrebbero compreso il suo linguaggio, condiviso quel suo bisogno di fiaba arricchito da un pizzico di magia.
Lei non aveva bisogno di polvere di stelle per volare.
A lei era sufficiente la sua capacità di sognare.
Iniziò a camminare dentro il bosco che s'infittiva sempre più di verde, di alberi, di arbusti.
E poi piccoli animali che si nascondevano fulminei al suo passaggio.
Sì guardò intorno in cerca di qualche piccolo cerbiatto, qualche Bambi, o qualche buffo Tippete.
E li incontrò.
Incontrò un giovane cerbiatto che la fissava immobile, lo sguardo fiero, la postura decisa sulle sue quattro zampe, il muso tenuto alto, gli occhi fissi nei suoi, lo sguardo severo.
E -questo sì che era magico- si accorse di comunicare con lui telepaticamente.
"Cosa fai tu, qui, nel nostro Regno?"
Vera rispose che cercava qualcuno che capisse il suo cuore, il suo modo di "viaggiare" con il pensiero, con la mente, con la fantasia.
Che tra gli esseri umani, quelli che all'apparenza erano simili a lei ma non la comprendevano, non era possibile.
Che si sentiva aliena in un mondo alieno.
Che, per questo motivo, aveva affrontato quel lungo viaggio fino alla foresta, per incontrare i personaggi della sua fantasia, che lei era certa esistessero in qualche modo.
E finalmente sarebbe stata accettata per ciò che era.
Senza fingersi diversa.
Senza mistificare.
Senza adattarsi ad diventare ciò che non era.
Accettata e capita finalmente!
Ma la durezza della voce del cerbiatto le attraversò la mente come una freccia, con chiarezza assoluta:
" Non interessa a noi di questo Regno la tua storia, né la tua solitudine.
Non ti vogliamo qui.
Non fai parte del nostro mondo, e NON ti vogliamo tra noi!"
Detto questo si allontanò.
Di colpo il silenzio più cupo avvolse la foresta: nessun cinguettio, nessun verso di animale, né lo scorrere di ruscelli, o lo scalpiccio di piccole zampe che corrono.
Vera si sentì mancare, cadde a terra, e rimase immobile con gli occhi spalancati, attoniti, smarriti, pieni di lacrime che scendevano a rigarle il volto.
Quanto tempo rimase in quello strano torpore non seppe dirlo, ma era più buio intorno, e l'aria più fredda.
Prese la strada del ritorno, ma sentiva una sensazione stranissima muoversi dentro di sé.
Come qualcosa che si stesse trasformando.
Era "dentro" ciò che stava avvenendo, dentro il suo essere.
Sentì il battito del cuore rallentare.
Qualcosa nel suo "sentire" stava modificandosi irreversibilmente.
La sua anima si era indurita.
Come se un prato ricoperto di erba morbida, fresca, tenera, gentile al tatto, si fosse trasformato in un terreno desertico, arido, senza vita, senza pozzi in cui abbeverarsi.
Era cambiata Vera.
Cambiata per sempre.
Ora capiva, o le sembrava di iniziare a capire, gli "altri".
Di essere esattamente come coloro che l'avevano sempre cercata inizialmente per la curiosità e l'attrazione che esercitava il suo bell'aspetto e per quella generosità e disponibilità nel darsi agli altri.
Ora percepiva che non avvertiva più gli stessi sentimenti, e che per questo non avrebbe più sofferto.
Che non sarebbe stata "usata" per ciò che era e poi allontanata.
Che avrebbe perso così la sua unicità.
Quella unicità che era la sua diversità.
E capì che quella diversità faceva paura non perché "strana" o negativa, ma esattamente per il motivo opposto.
Perché o sei veramente così "dentro", vera come il suo nome, o non puoi provare ad esserlo e fingere: non funzionerebbe.
Il dolore era penetrato nella sua anima talmente a fondo da toglierle calore, e quella vitalità dirompente che le scorreva senza argini.
Ora forse non avrebbe più provato grandi gioie, ma neppure grandi sofferenze.
Mai più ferite o squarci nel suo cuore, ma -ogni tanto- solo piccoli e insignificanti segni.
E quel tran tran che soddisfa chi si sente nel giusto nel suo appiattire la vita.
Senza renderla straordinaria.

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