La diffidenza: quando è eccesso e non protezione - Storia di Lia

 

Lia si sentiva più furba delle altre ragazze.
Perlomeno più attenta.
Meno ingenua e credulona.
Meno disposta ad affidarsi se, in modo imprevisto, le arrivava da parte dell'altro un gesto gentile, delicato, di intima dolcezza, che presupponeva un cuore "pulito", onesto, sincero.
Anzi, attivava le sue infallibili "antenne", sempre pronte a captare segnali per lei ambigui.
Questo per quanto riguardava solo il genere maschile però.
La diffidenza la nutriva solo verso gli uomini.
Altrimenti era la ragazza più disponibile e fiduciosa al mondo, nel senso più ampio, più completo, più ricco, più profondo, del termine.
Così era anche l'amore e lo stupore verso ogni aspetto della Natura e della sua bellezza.
Adorava tutto, ma proprio tutto, di questa: l'infinita distesa verde/blu del mare, il suo luccichio in certe giornate di sole, o al chiarore argenteo della luna.
Quei misteri del suo fondo più profondo, che non conosceva ma su cui fantasticava.
E gli ancora più misteriosi abitanti di quegli abissi che non aveva mai visto, ma che immaginava come esseri dai colori e dalle forme più strane: immense stelle marine che camminavano sulle punte, nel fondo del mare, come fanno le ballerine di danza classica quando piroettano sulle punte delle loro scarpette.
E certi strani pesci, quelli che sembravano avere una luce all'interno del corpo, rischiarando il buio degli abissi.
Soprattutto adorava il sorgere del sole così come il vederlo sparire -come annegasse- dietro l'orizzonte blu cobalto del mare.
Ma sapeva che "lui" andava solo a dormire, e che alle prime ore del mattino si sarebbe risvegliato, alzandosi presto, stirando i suoi raggi d'oro come lunghe braccia un po' intorpidite dal sonno.
Quelle albe che sapevano tingere il cielo di colori tenui, come certi gialli dorati, e quei rosa delicati, pieni di sfumature.
E nel tramonto gli stessi colori, ma molto più accesi e intensi, erano il messaggio che il giorno stava per finire.
Poi ecco arrivare le stelle.
" Dopo tanta nebbia, a una a una si svelano le stelle": scriveva così il poeta Ungaretti in una sua poesia.
Ed era sempre con un po' di stupore che Lia guardava al cielo, con il mento rivolto in alto, quando la natura impregnava i suoi pennelli di colori più scuri, per adattarli così alla notte.
Non riusciva a spiegare a nessuno quanto amasse quei cieli stellati, quella natura.
Non lo riusciva a spiegare, non fino in fondo almeno: a volte ci provava, ma poi lasciava il discorso a metà davanti allo sguardo perplesso dell'altro.
Quando ammirava un cielo così, o anche un paesaggio speciale, sentiva di appartenere alla Terra. Totalmente parte della Terra.
In quei momenti provava una gioia improvvisa, rapida, intensa come una freccia che entra senza ferire, ma spacca il cuore di meraviglia e gratitudine.
Allora perché questa diffidenza verso gli uomini?
Sapeva di essere fin troppo aperta al Mondo.
Lo era nel suo modo di esprimersi, così come lo era nella disponibilità immediata per chiunque richiedesse il suo aiuto, o semplicemente avesse voglia -insieme a lei- di scoprire cose nuove e diverse da una quotidianità, forse rassicurante, ma senza attese.
Amava la Vita, in ogni sua sfumatura, in ogni suo mistero, in ogni sua magia.
E avrebbe amato anche gli uomini -forse- se ne avesse incontrato uno affine a lei, come lei capace di percepire la magia della vita, ma soprattutto che fosse capace di un "sentire vero".
Allora sì: si sarebbe fidata senza remore.
Ormai non aspettava più un simile incontro.
Aveva tanti interessi Lia, amava l'arte in ogni sua forma, e sì: avrebbe voluto condividere tante passioni con un compagno, che non lo facesse per compiacerla ma per affinità.
Aveva creduto che tutta la fantasia, quella curiosità che abitava la sua testa e la sua anima oltrepassando il confine dei sogni, fossero una ricchezza in più.
Invece la isolavano, rendendola agli occhi degli altri una ragazza un po' strana, difficile da capire, con una sensibilità eccessiva e complessa.
Stava bene con sé stessa ora, e con quel suo mondo che custodiva e proteggeva.
La mamma le diceva spesso: "ma chi ti ha fatta, da che pianeta vieni?"
E lei ridendo rispondeva: "non è un pianeta, è una galassia dove ci abitano le stelle più luccicanti ma anche più matte!"
Una mattina Lia decise di andare a vedere l'alba dalla riva del mare.
Era emozionata, il cuore le batteva forte, non sapeva perché.
All'improvviso sentì una presenza dietro di sé.
Sì giro' di scatto e vide un ragazzo.
Rimase colpita dalla dolcezza di quel sorriso, dalla serenità di quello sguardo chiaro dal colore indefinibile.
D'istinto si mosse pronta ad allontanarsi, ma il ragazzo la fermò parlandole.
Aveva una voce gentile, dal tono gradevole, quasi musicale, basso ma ben comprensibile.
Le disse di non avere paura, che era lì come lei per godere di quello spettacolo della natura.
Che l'aveva già vista altre volte, ed era rimasto colpito dalla grazia dei suoi movimenti, dall'espressione dei suoi occhi che si perdevano nel confine dell'orizzonte, e di come tutto questo facesse di lei un tutt'uno con la Natura, dentro la Natura, quasi avvolta da essa.
Lia rimase sgomenta da queste parole, come se qualcuno -per la prima volta nella sua vita- avesse trovato una breccia, una minuscola fessura, entrando così nel suo mondo fatto di luce e di tante ombre.
Si ricordava di quando uno sciamano indiano, posandole le mani sul capo, le aveva detto: "sei fatta di luce, ma tanta luce proietta anche tanta ombra."
Ed era così che sempre si percepiva: luce ed ombra.
Quel ragazzo le chiese il permesso di tenerle la mano mentre guardavano insieme quel cerchio di fuoco che si alzava verso il cielo, sempre più fulgido, forte, intenso, prepotente, inarrestabile nel suo diffondere calore ed energia.
Intanto il suo incontro occasionale le parlava di tutto ciò che lei aveva sempre aspettato, sperato di ascoltare.
E le loro mani strette erano come un ponte che univa le loro anime in una unica.
Lo seguì Lia.
La sua diffidenza si era come dissolta come la nebbia all'arrivo di un'aria pulita, fresca, asciutta, pura.
Sì unì, in quel momento senza ombre, a quel ragazzo che sembrava fatto "della stessa materia dei sogni" come scriveva Shakespeare.
O forse era un abitante della Terra di Mezzo, e aveva fatto una Magia.
Il tempo era passato veloce come un battito d'ali, o di ciglia. E Lia doveva tornare a casa.
Il giovane l'abbracciò forte prima di lasciarla andare, con l'impegno che la mattina dopo, alla stessa ora di quel sorgere del sole, sarebbe stato lì, ad attenderla, con il cuore "pieno".
Lia gli chiese: "pieno di cosa?"
Lui rispose: "pieno d'infinito".
Nessuno mai le aveva parlato in quel modo, facendole volare il cuore.
Sì rese conto che tutte le sue difese erano crollate insieme a tutte le sue diffidenze.
Provava solo desiderio che la notte si consumasse in fretta, rosicchiata dal giorno.
E il giorno arrivò.
Lo aveva atteso sveglia, fino ai primi raggi di sole stesi come braccia che avvolgevano rubando il cuore.
Ma questa volta il suo cuore era già "rubato" da un ladro gentile.
Lia si fece una doccia rapida e gelata per svegliare ogni suo senso, darle forza, e un'energia raramente provata.
Si truccò appena un po' il viso pallido, che tradiva la notte insonne, con un velo di rosa.
Indossò un paio di calzoncini che valorizzavano le sue belle gambe, una canotta, un paio di scarpe leggere ma con i lacci per camminare più in fretta sulla sabbia.
Spazzolò i capelli, lunghi, morbidi, lucidi, che erano una vera ricchezza.
Un ultimo sguardo allo specchio e uscì.
Che dire di quel tragitto che la divideva dal "momento"?
Che era come un "ponte tibetano", dove le corde con cui era costruito, erano in realtà fili d'oro dai poteri magici come quelli delle fiabe, sottili ma solidi e forti come solo quelli di un amore non deluso possono essere.
Lia arrivò sulla riva del mare, nel punto preciso del giorno prima, con il fiato corto.
Le gote ora arrossate per l'ansia e la corsa, gli occhi brillanti, le labbra socchiuse per riprendere il respiro normale.
Quanto aspettò Lia?
Un minuto, un'ora, un giorno?
Non era da lei aspettare, non lo faceva mai, concedeva al massimo un quarto d'ora di ritardo.
Invece quella volta aspettò che i colori dell'alba prendessero intensità, che i rosa teneri divenissero di un rosso cupo.
E che il sole annegasse dietro l'orizzonte.
Lia era attonita, incredula, infreddolita, svuotata.
La delusione lasciava il posto al rimpianto per avere assecondato -forse per la prima volta nella vita- quella fiducia mai conosciuta, mai sperimentata.
D'impeto il pensiero che le attraversò la mente fu:
" hai visto stupida cretina cosa significa fidarsi?! Sei diventata vulnerabile, come qualunque ingenua ragazzetta! Ti sta bene, te lo meriti!"
Poi, però, quel momento dettato dalla disillusione, così immediato e così nuovo per lei, si calmò.
E iniziò a pensare, andando oltre a quella sua delusione che le suggeriva conclusioni sbagliate. Sbagliata quanto lo era stata quella ostinata diffidenza che l'aveva sempre accompagnata.
Quella diffidenza che l'aveva chiusa agli altri da sempre, rendendola vulnerabile proprio perché non le aveva mai permesso di fare esperienza.
L'esperienza che vivere con fiducia significa accettare il rischio che questa venga tradita e che ti spacchi il cuore.
Ma il cuore non si spacca, non per le delusioni almeno.
Che, anzi, lo fortificano, lo rendono più aperto agli altri e alla vita.
Che se non sanguina mai, si "asciuga" e si inaridisce.
Che bisognava accogliere le delusioni per imparare a conoscerle.
Imparare ad affrontare senza pregiudizi, né timori che alla fine si trasformano in corazze che immobilizzano.
Gabbie per la mente, per il corpo, per l'anima, impedendo ciò che di più importante c'è nella vita: vivere le emozioni, tutte, senza farle sfumare perché poi si rimpiangono.
Perché la vita è come un giro sull' Otto Volante, intenso e rapido.
E la diffidenza è un falso scudo: se è eccessiva non protegge, ma isola e inaridisce il cuore.

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