Consapevolezza che cura

Nel post precedente vi ho detto che avrei spiegato meglio il motivo del mio abbandono della Scuola di Terapia Psicocorporea alla fine del secondo anno.

Forse una buona soluzione potrebbe essere quella di cercare di descrivere le sensazioni che ho avvertito maggiormente mano a mano che frequentavo le lezioni di pratica.
Nervosismo, inadeguatezza, dubbi, rabbia, tensione, insofferenza, ma anche curiosità.
E speranza di salvezza.
Fondamentale era imparare a "lasciarsi andare", cosa per me estremamente difficile.
Nella giornata introduttiva al corso, nella descrizione dei casi clinici, la prima idea che ha attraversato la mia mente è stata: NO.
Io non ce la farei mai.
Non riuscirei a emettere suoni, fare strani movimenti, smorfie, né tantomeno intensificarli, forzarli, esasperarli.
E mi tornano in mente le parole di Roland Barthes in Frammenti di un Discorso Amoroso:
"Io posso fare tutto con il mio linguaggio, ma non con il mio corpo. Posso modellare a mio piacimento il mio messaggio ma non la mia voce.
Qualunque cosa essa dica, dalla mia voce l'altro si accorgerà che "ho qualcosa".
Sono bugiardo, ma non so recitare.
Il mio corpo è un bambino cocciuto, il mio linguaggio è un adulto molto evoluto ... sicché una lunga serie di sforzi verbali ( le mie "gentilezze") potranno tutto a un tratto esplodere in una revulsione generale: una crisi di pianto (ad esempio) davanti agli occhi esterrefatti dell'altro, verificherà d'un sol colpo gli sforzi di un linguaggio troppo a lungo calibrato."

Forse è questo che temo.
Che non mi posso e non mi voglio permettere.
La mia mente ha il controllo sulle emozioni.
E i dieci anni di attacchi di panico allora?
"Questo disturbo a volte impalpabile come una nebbia che ti inghiotte, che ti nasconde e ti isola dagli altri, eppure così concreta quando con le stesse mani di nebbia ti stringe la gola all'improvviso".
L'ho scritto io.
È questo che ho scritto nell'introduzione alla tesi di laurea parlando dell'attacco di panico.
Di questa mia "malattia" compagna di mille giorni e di mille notti.
Sudore e tremiti, derealizzazione e depersonalizzazione, senso di soffocamento e di morte.
Mostro dai mille volti che ha sconvolto la mia vita come un ciclone. Vento a volte gelido talaltra torrido, ma sempre devastante, sempre ugualmente violento.
Mille volte sollevata da terra mille volte stupita di essere sopravvissuta.
Rileggo una frase che ho scritto all'inizio di questa sorta di confessione/autocritica/sfogo: "la mia mente ha il controllo sulle emozioni"...
Davvero ho creduto di poter amputare la mia anima dal corpo?
Davvero ho creduto che l'anima risiedesse solo nella mia mente e non nel mio cuore, nelle mie braccia, nelle mie mani, nella mia pancia, nelle mie gambe, nei miei piedi?
Ho compassione di questa bambina dalle emozioni intense, cucciolo selvatico, pura energia, principessa dagli occhi tristi che lungo sentieri intricati ha trovato una bacchetta magica o stregata e l'ha rivolta verso se stessa formulando inconsapevolmente un incantesimo: "da ora in poi non sentirai più dolore, da ora in poi non sentirai più niente."

Sono cambiata ora: ho spezzato l'incantesimo.
Gli anni in cui ho lavorato in ospedale mi hanno aiutata tantissimo. E il Tempo.
Il Tempo è quel Medico invisibile che ci accompagna sempre.
Che sempre ridimensiona e a volte cura e rimargina ferite.
 
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