Eva racconta la sua anoressia
Sono cresciuta nella paura: ho passato gli anni della mia infanzia tra l'ansia e l'incertezza, ignorando la vera atrocità di ciò che stava intorno a me; vedevo tutto in modo strano, diverso...è normale: non avevo che pochi anni ed era spontaneo per me l'immaginare che tutto questo fosse un breve film, un'esperienza in cui io non ero io, ero una piccola attrice dove le protagoniste eravamo noi tre (mamma, mia sorella, ed io), e l'antagonista era mio padre in preda ai suoi momenti di cattiveria.
L'esitazione ed il timore sono stati miei compagni di gioco, di scuola, erano nell'aria che respiravo e in casa accanto a me in tutto quello che facevo; ma lì per lì non me ne rendevo conto.
So di essere stata protetta ed amata dalla mia mamma, più di quanto lei non amasse se stessa; e questo succede anche oggi, sempre...
Non smetterò mai di dire grazie, vorrei urlarlo al mondo intero.
Quando i miei genitori si sono "finalmente", separati legalmente, (potrei dire altrimenti: quando mia madre ha avuto il coraggio di strapparsi di dosso la catena di paura che lui le imponeva) per me è stato molto liberatorio, un sospiro di sollievo per tutte e tre.
Quando questo accadde avevo circa otto anni.
Adesso che ci ripenso mi dico che tutto questo è stato assolutamente atroce: non ho contato le volte che i carabinieri sono stati chiamati ed hanno dovuto intervenire per placare mio padre, le botte prese da tutte e tre.
Ho dei flash...dei ricordi vividi, simili al fermo immagine di litigi, urla e parolacce; e purtroppo questi flash di paura costituiscono la maggior parte dei ricordi della mia infanzia, delle mie giornate in casa.
Sono sempre stata attaccata a mia mamma e allo stesso modo lei lo è a me. Abbiamo un rapporto fusionale.
Credo di avere avuto diversi rapporti fusionali quando sono cresciuta...ovvero: di cercare ragazzi che mi dessero una profonda sensazione di protezione, accudimento, sicurezza, affettuosità....tutte cose che io da parte di un uomo non avevo mai ricevuto.
La cosa mi procurava non pochi problemi nelle relazioni con i ragazzi e con i maschi in genere.
Poi crescendo la cosa si è molto attenuata per non dire sparita del tutto, tanto che quando tutte le mie amichette tredicenni avevano il ragazzo e io no mi preoccupavo perchè al mio fianco volevo avere un fidanzatino anche io, uno che mi facesse sentire unica e importante.
Mi serviva un punto di riferimento.
Avevo bisogno di essere al centro di un universo, un universo maschile. Per anni ho inconsciamente cercato di trarre la figura di un papà da chiunque potesse farlo (un mio vecchio datore di lavoro, i medici....) con ovvi insuccessi e disillusioni.
Oggi so che papà non lo posso trovare dentro a nessuno: non lo cerco più nei miei fidanzati nè in nessun altro.
E' stata una fase passata.
Col tempo ho imparato a valutare le persone; sto tutt'ora imparando e credo che sia una di quelle cose in cui la lezione non è mai finita...
Se ripenso che tutto è iniziato ormai nel 1997 mi viene una sensazione strana, come se questi cinque anni siano volati e mi siano passati davanti come un'auto in corsa e che io non ho potuto nemmeno sfiorare.
Ho sempre amato ogni più piccola sfumatura della vita, la compagnia della gente, i colori, la musica ed il mondo che stava intorno a me: diciotto anni appena compiuti, una ragazza vivace come tante.
Non avevo mai pensato neanche lontanamente che quello che sarebbe successo più avanti mi avrebbe sconvolto l'esistenza, nè tantomeno immaginavo che io, dico IO mi sarei ammalata.
Io che consideravo stupide tutte le amiche che non mangiavano perchè si vedevano grasse anche se non lo erano affatto e dicevano: "vorrei essere un pochettino anoressica, ma solo un po', così smaltirei la mia ciccia e poi ricomincerei a mangiare".
Facevo l'ultimo anno di scuola superiore ed un giorno come tanti io e mia mamma decidemmo di metterci insieme a dieta; non era la prima volta che facevamo questa cosa insieme, ed io non mi preoccupavo assolutamente, tanto che di solito al secondo giorno io mi stancavo di seguirla.
Pesavo circa quarantasei chili per un'altezza di un metro e cinquantadue...non ero grassa, tutto sommato mi piacevo e stavo proprio benino così com'ero!
Questa volta, invece, mi ero mostrata più determinata del solito continuavo a volerla seguire, a evitare certi cibi e ad avere paura di ingrassare o di riprendere quel paio di chili che ero riuscita a perdere.
Era più forte di me: più passava il tempo e più cercavo di mangiare poco, più dimagrivo e più mi vedevo carina e se mangiavo qualcosa "in più" mi sentivo inesorabilmente in colpa; ero di malumore così tanto che finché non avevo l'avevo recuperata mangiando meno magari il giorno dopo o facendo della ginnastica per bruciare calorie, non mi sentivo a posto.
Preparavo anche degli ottimi manicaretti "normali" e tantissimi dolci che offrivo e facevo mangiare proprio a tutti, ma io non li mangiavo mai.
Per me cucinavo quasi solo io, e mangiavo, solamente cose scondite; ormai poche volte permettevo a mia madre di prepararmi da mangiare, e comunque la controllavo per essere sicura che lei non aggiungesse dell'olio di nascosto.
Mia mamma mi fece andare dal nostro medico di famiglia.
Da una parte desideravo tantissimo che la cosa che si stava impossessando della mia libertà se ne andasse...e dall'altra sentivo che sarebbe stato come cercare di scalare l'Everest a mani nude, io avrei voluto stare bene ma non potevo.
Pensavo che una volta riuscita a domare il mio corpo non avrei avuto bisogno di nessuno.
In fondo mi dava sicurezza.
Avevo paura di perderla.
Il mio dottore notò che ero sottopeso e mi diede un blocchetto nel quale dovevo annotare tutto quello che mangiavo durante il giorno, per poi tornare a farglielo vedere.
Inutile dire che quando annotavo quello che mangiavo nel blocchetto, mi veniva una inconscia voglia di "farcire" e scrivere sempre un pochettino di più.
Arrivò anche la mia prima prescrizione di fluoxetina.
Feci due sedute con una psicologa la quale, sinceramente, di me non aveva capito nulla; lo dico a malincuore ma purtroppo è andata così; o io ero stata molto brava nel dimostrare che la mia era solo una sana attenzione verso il mio corpo, o questa signora non aveva una idea di quanto le anoressiche siano brave nel fingere che tutto sia a posto.
I mesi intanto passarono e mia mamma mi portò anche da una dietista, la quale studiò una dieta di mantenimento per me in base alle mie abitudini e preferenze.
Questa dieta di mantenimento mi piacque tantissimo, ma più di guardare i fogli e leggere con l'acquolina in bocca quello che mi veniva indicato...non riuscii a fare.
Non la seguii mai completamente, non facevo altro che eliminare, scartare, diminuire le quantità, buttare via il cibo e fare ginnastica....ed il peso lentamente scendeva.
Arrivò anche la scomparsa del ciclo: speravo che fosse solo un banale ritardo dovuto alla alimentazione squilibrata ed allo stress, invece no: non tornavano più.
Io ero sempre più presa da questa cosa e sempre più fiera dei miei dimagrimenti; mi sentivo sempre più esile, più intoccabile, una splendida creatura evanescente.
Ma ancora stavo benino.
Arrivai stremata agli esami di maturità, era luglio ed avrò pesato circa trentacinque chili, e addirittura durante l'esame orale la commissione mi offrì dei pasticcini!
Questa è una delle tante cose che di sicuro non dimenticherò mai!
Mangiavo sempre di meno e facevo moltissimo sport, nemmeno io so dove trovassi le forze per correre così tanto o fare tutta la ginnastica che facevo mangiando meno di mille calorie al giorno; addirittura anche seicento o settecento, dipende.
Avevo una grinta enorme, una rabbia dentro che mi faceva fare tutto quello che mi prefiggevo, durante la mia giornata il pensiero più ricorrente era il cibo, o meglio: il cibo di cui non mi sarei nutrita. In agosto però iniziai a sentirmi male, ho iniziato a riconoscere che così non potevo più vivere: avevo sempre freddo, un freddo che nasceva dalle ossa e si diluiva lungo tutto il corpo e che nemmeno il fuoco poteva scaldare; indossavo sempre almeno due o tre maglie, bevevo tazze di thè, camomilla o caffè d'orzo bollente per cercare di scaldarmi da dentro.
Sminuzzavo il cibo in modo assurdo, facevo le poltiglie con tutto quello che avevo: dalla pasta alla carne alla verdura. Sminuzzavo anche per delle mezz'ore intere e finché non era come dicevo io non mangiavo.
Quando mi cuocevo i miei quarantacinque grammi di pasta (se non meno) e non avevo voglia di sminuzzarla, la mettevo nel tritatutto prima di cuocerla e la riducevo a pezzetti piccolissimi.
Il fatto è che io spappolavo proprio sempre, anche se per caso avevamo ospiti. La cosa mi imbarazzava un po' perchè vedevo la gente che mi osservava stando attenta che io non me ne accorgessi; ma io andavo avanti imperterrita nella mia impresa di triturazione, per rendere il "mio" cibo meno pericoloso, per dominarlo.
Il mio peso scendeva; non ce la facevo, la paura del cibo superava l'impegno che io cercavo di mettere per non stare peggio.
Decisi che era il momento di un ricovero in ospedale; stavo male, ero sfinita ed allora mia mamma mi portò al Pronto Soccorso. C'era posto nel reparto di Medicina e trascorsi una settimana lì dentro perennemente con la flebo al braccio. Provai una sensazione molto strana vedendo che nello spazio in cui doveva esserci scritta la causale del ricovero, scrissero in stampatello "anoressia nervosa"; era la prima volta che mi dovevo considerare "ufficialmente" malata di anoressia.
Avevo con me addirittura le polsiere, i miei pesi da un chilo che facevo fieramente sul letto legandomeli alle caviglie.
Dopo una settimana di flebo mi mandarono a casa con due chili in più, ma puntualmente una settimana dopo ne ripersi tre.
La mia vita si stava riducendo sempre di più a vegetare, anche se cercavo di sentirmi il più viva possibile. Avevo mille pensieri che schizzavano in testa, il corpo non poteva fare più di tanto ma la mia mente era viva come non mai, un vulcano.
Oramai stavo sempre in casa con addosso almeno due pigiami una sopra l'altro e con una stufetta elettrica accesa dietro la schiena, seduta in cucina con le porte chiuse per non disperdere il tepore che si creava e con una tazza di thè bollente per scaldarmi le mani e sentire il calore che scendeva dentro di me ad ogni sorso.
Arrivò il mio compleanno, nell'autunno '97 festeggiai i miei diciannove anni in casa, in pigiama, con i miei parenti che per mostrarmi quanto mi amassero vennero tutti in pigiama anche loro e facemmo un "pigiama party". Non mangiai pressoché nulla, mi misi a piangere almeno cinque volte ; avevo paura di lasciarmi andare anche solo per un attimo, non volevo assaggiare nemmeno ciò che io stessa avevo preparato per la mia festa. Io resistevo poichè dovevo continuare ad essere "più forte", "sopra le righe".
Mia madre venne a sapere che a Bologna esisteva un centro per la cura dei disturbi alimentari.
Ricordo che un giorno la vidi impegnata al telefono, ci mise un po' e poi mi disse: "Eva, io ti ho preso un appuntamento qua...". Io dissi solo: "Ok, va bene; VOGLIO farmi curare, voglio che qualcuno mi aiuti, voglio che gente esperta mi guidi".
Ricorderò sempre il momento in cui entrai per la prima volta all'Ospedale Sant'Orsola di Bologna per la prima visita: ero emozionata, spaurita, stremata da tutto quello che mi stava succedendo e dal quale io non riuscivo ad uscire.
Il mio primo colloquio fu rassicurante: capii che l'ambiente poteva essere "quello giusto" e che le persone lì erano preparate. Mi pesarono anche: ero trenta-trentuno chili. Mi ricoverarono in giornata.
Dovetti trascorrere la prima settimana di ricovero nel reparto di Medicina, poiché in quel momento non avevano un posto letto per me assieme alle altre pazienti. Non fu affatto una bella settimana, tant'è che al posto di incrementare il peso scesi a ventinove chili.
Si liberò quindi un posto letto nel reparto di Neuropsichiatria Infantile (era qui che le ragazze coi disturbi alimentari venivano ricoverate) e venni trasferita.
Il mio fisico era tutto a rallentatore ma la mia mente era in subbuglio, un continuo viavai di pensieri e paure insormontabili.
Avevo tanti amici di penna che mi scrivevano a casa; mia madre mi portava la corrispondenza ogni volta che mi veniva a trovare, ed io le davo le lettere da imbucare per mio conto. Cercavo di far capire loro attraverso la scrittura quanto duro per me fosse quel periodo...e volevo far vedere che nonostante tutto io amavo la vita. Perchè nessuno sapeva per quanto tempo avrei dovuto stare lì.
Ogni mattina era l'inizio di una sfida nuova; ogni volta che aprivo gli occhi all'alba e vedevo sorgere il sole speravo in cuor mio che anche quel giorno passasse in fretta.
Di questo lungo periodo in ospedale non ho nemmeno un quadernetto, nemmeno un diario...nulla.
Non ho scritto altro che lunghe lettere alle persone che amavo, nelle quali raccontavo loro ciò che mi accadeva...ma per me non scrissi nulla. Scrivevo a tutti quanti ma per me non ho scritto nulla...era già un'esperienza psicologicamente molto forte. C'è un buco che riguarda questo lasso di tempo. Sulla carta c'è un vuoto ma io ho ricordi vividi e intensi.
In ospedale cercarono di assistermi molto anche psicologicamente: più volte durante la settimana vedevo arrivare in stanza delle ragazze che facevano il tirocinio e che cercavano di tenermi compagnia. Mi chiedevano di raccontare, di esprimere le mie sensazioni. Per me fare questo non era affatto semplice: già non riuscivo nemmeno a buttar giù la rabbia sulla carta, figuriamoci se riuscivo a parlare dei miei lati più bui a persone che non conoscevo e che non mi conoscevano.
Ero arrivata al punto in cui non riuscivo più nemmeno a conversare con mia madre quando mi veniva a trovare; non riuscivo a star ferma sul letto con lei che leggeva una rivista accanto a me. Di questi mesi, più che gli aspetti dell'alimentazione e farmacologici, ricordo vividamente le sensazioni forti che provavo e in questo stesso momento mi ci sto rituffando a capofitto; cosa che non mi riesce semplice.
Non volevo essere vista da tutti: ad esempio venni a sapere che mio padre avrebbe voluto venirmi a trovare...non era il caso.
In ospedale conobbi anche tante ragazze ammalate come me; non era facile legare nemmeno tra di noi ragazze, ognuna chiusa nel suo mondo e assorta nei suoi pensieri e paure...come me, del resto.
Tra le tante figure che facevano assistenza psicologica alle ragazze ce n'era una particolare, una a mio parere diversa e con un metodo tutto suo: non invadente e non pesante, come invece mi davano l'impressione di essere le altre in quel momento. Questa persona molto speciale è Maria Pia. Avevo modo di vedere come si poneva con le ragazze perchè veniva a chiacchierare con la mia compagna di stanza ed io sin dai primi giorni ci facevo caso. Iniziai a pensare tra me e me che il modo in cui lavorava mi piaceva tanto e speravo in cuor mio che un giorno sarebbe venuta anche da me.
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Ecco, concludo il racconto di Eva.
Scritto - con una capacità che emoziona - circa cinque anni dopo le dimissioni dall'ospedale, e il lungo percorso intrapreso dall'inizio della malattia fino al suo superamento.
La Maria Pia con la quale termina questa sorta di diario sono io, quando ero una delle tante psicologhe che svolgevano il loro tirocinio, e sono enormemente orgogliosa delle parole che mi ha dedicato.
Sono poi rimasta diversi anni all'interno del reparto dei DCA.
Ho amato tantissimo quegli anni.
L'incontro tra me ed Eva, l'immediata empatia e fiducia trasformatasi poi in complicità per sconfiggere l'anoressia, è stato qualcosa di magico, difficile da spiegare.
Quelle magie (miracoli?) che a volte accadono nella vita.
Io ho insegnato tante cose a Eva, ma altrettanto lei - e la sua esperienza di vita - le hanno insegnate a me.
Sono passati venti anni da questa sua lettera/racconto, ma io ed Eva siamo rimaste legate come da un filo invisibile che non si è mai spezzato. E sono rarissimi i fili che resistono al tempo.
Ora lei è una donna davvero davvero forte.
Non la forza fasulla e illusoria che dà la patologia, ma quella che si è costruita attraverso la sua sofferenza e la determinazione di superarla.
La forza di sconfiggere un nemico feroce come sa essere il disturbo anoressico, e la capacità di lasciarsi andare alla fiducia di chi voleva farla tornare alla Vita.
Ci sono ferite che non guariscono così in fretta: prima devono rimarginarsi e questo richiede tempo, molto tempo a volte.
Le cicatrici...bè quelle restano, proprio per poterle sfiorare ogni tanto con il "polpastrello della memoria", per ricordarci che si sono chiuse, che possiamo andare oltre.
Che ce l'abbiamo fatta.
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