C'era una volta
Per fare capire meglio le modalità che adottai all'interno dell'ospedale, vi riporto - in maniera sintetizzata rispetto alla lunghezza originale - il racconto scrittomi da una delle pazienti ricoverate, a fine anni novanta, che chiamerò Eva per mantenere l'anonimato.
Eva, diciannove anni all'epoca, era ritenuta una "paziente difficile" per la distanza che teneva con i medici e le colleghe quando provavano ad approcciarla.
Questo periodo lo racconterà meglio lei stessa cinque anni dopo le sue dimissioni dall'ospedale, e che vi riporterò di seguito a questa premessa.
Ricordo ancora la prima volta che la vidi entrando nella camerata dove era ricoverata insieme alle altre ragazze.
Minuta, piccolina, magrissima.
Nel viso grazioso dalla carnagione molto chiara il pallore era ancora più accentuato.
I capelli, d'un bel castano-rosso, erano divisi da una scriminatura al centro raccolti in due code tiratissime ai lati del volto, racchiuse poi in due "crocchie" fermate quasi vicino alle tempie.
Ma ciò che mi colpì di più in lei era l'espressione del volto: chiusa, irrimediabilmente chiusa, quasi ostile verso il personale medico, e in particolare verso noi psicologhe.
Sapevo che Eva non era affidata a me perchè ognuna di noi aveva già le ragazze che erano state assegnate per essere seguite.
Ogni tentativo da parte delle mie colleghe per iniziare un colloquio con lei si era dimostrato fallimentare.
Io, ricordo, avevo iniziato a lavorare su una fiaba scrittami da una ragazza ricoverata accanto al suo letto.
Piaceva molto alle mie giovanissime pazienti - alcune poco più che bambine - il momento dedicato all'interpretazione della loro fiaba: nessuna forzatura, nessuna pesantezza nè imposizione.
Tutto avveniva come una specie di gioco per loro.
Per me, un momento importantissimo per arrivare - attraverso il loro scritto - al cuore di quella sofferenza a cui non sarei mai giunta con domande troppo dirette, troppo "tecniche", o con una fastidiosa invadenza. Un modo diverso e fantasioso per farle aprire a verità e "segreti" chiusi dietro le loro labbra serrate.
Un giorno, mentre avevo terminato il tempo da dedicare a una ragazza e stavo per uscire, Eva mi chiamò mentre passavo davanti al suo letto.
Era un po' titubante, e io le sorrisi.
Ho sempre creduto in quella ragazzina.
Sempre stata certa che dietro a tanta ostinazione ci fosse un mondo. Un immenso mondo da ascoltare.
Mi chiese "pensi che possa scrivere anch'io una fiaba?".
Non so spiegare cosa provai dentro di me: credo fosse un battito in più nel mio cuore provocato da stupore, gioia, speranza.
Dissi che ero certa non ci fossero problemi, ma che prima - ovviamente - dovevo chiedere, per ottenere il permesso, alla Dottoressa che era a capo di noi psicologhe, e che ci supervisionava.
Ottenni il permesso.
Il resto - come si dice - è vita.
E mai, come in questo caso, si dimostrò davvero vita.
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